Spezzone di conversazione con Enzo all’Albergo della salute ai primi di dicembre
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E: “tira nsema argot per l’annuario”
C: “proe a met so argòt se me e l’ispirasiù”
E: “fasela egn”
C: “va be”
E: “a chel vole per la fì de desember”
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Il 29 di dicembre gli ho spedito questo scritto rispettando il suo desiderio.Monte Bianco14 Luglio 1977
- Schizzo della salita italiana al Monte Bianco, tratto dalla Guida del CAI Monte Bianco (1963) (Chabod-Grivel-Saglio- Buscaini)
Quello che conta è sognare. E quella volta il sogno mi era venuto sfogliando la rivista mensile del Club Alpino Italiano. Non ricordo esattamente dove mi trovassi in quel momento ma ero certo che quelle due pagine quattro facciate con foto che descrivevano la normale italiana al Monte Bianco erano entrate dentro di me, le strappai dalla rivista e le misi nel cassetto delle cose importanti. In quel cassetto dove si conservano gli oggetti materiali o in quel cassetto della nostre mente dove si cullano i sogni .
Non so esattamente perché fui folgorato da quella via di salita al Monte Bianco ma la sensazione di grande avventura che ne ricavavo sembrava la logica conseguenza delle tante giornate trascorse sulle Orobie di casa.
Bisogna necessariamente aggiungere che il boom economico italiano era già esploso da tempo ma non per tutti . Il pile e i gore-tex erano di là da venire per non parlare dei cellulari, di google e gps.
La Valle d’Aosta era nota per essere una regione a statuto autonomo e la regione dove era situato il Monte Bianco la cima più alta d’Europa.
Questo appreso dai libri di scuola, in realtà poi nessuno aveva capito in cosa si traducesse questo essere autonomi ma in molti appassionati di montagna avevamo ben chiaro dove era situata la cima più alta delle Alpi.
La geografia godeva ancora di una sua dignità ed era ancora una materia degna di essere insegnata, il ghiacciaio del Miage rientrava tra le mie antiche rimembranze scolastiche. Erano anni di un certo fervore giovanile e di grande innovazioni. Io mi dibattevo tra i Decreti Delegati il mattino , un officina meccanica il pomeriggio e un sano alpinismo nel tempo libero . L’importante era esserci che poi si trattasse di una manifestazione studentesca o di una montagna poco contava ma il desiderio di partecipare era sempre presente.
- La confluenza del ghiacciaio del Dome in quello del Miage.
L’apparire di cui si nutre il presente non era del tutto assente ma sicuramente era un dilettante al confronto della realtà attuale . E anche l’alpinismo non ne era immune , ognuno viveva arroccato sui propri successi e guardava con supponenza tutto quello che si affacciava al mondo.
Sbatto la portiera della mia 126 Fiat e ci chiudo dentro tutte le mie incertezze giro la chiave con una certa lentezza, controllo che i miei fogli guida siano in tasca e mi avvio verso il lago del Combal risalgo il ripido sentiero che mi porta sul ghiacciaio del Miage.
Faccio fatica a mettere in ordine tutto quello che mi passa per la testa, essere qui è già un successo. Il ghiacciaio del Miage sembra infinito l’Aiguilles de Trelatête e l’Aiguilles Grises fanno da cornice molte altre cime mi sono del tutto sconosciute. So per quello che ho letto che questo ghiacciaio lo devo percorrere in tutta la sua lunghezza, i rumori che provengono dalle pareti circostanti mi provocano una certa apprensione solo in parte sopita dal fatto che nessuna frana può raggiungere il percorso che si snoda al centro del ghiacciaio molto distante dai pendii.
Il tratto di percorso sul ghiacciaio è lungo forse più di cinque chilometri, si cammina su morena detritica che ricopre in ogni dove il ghiaccio. Il ghiaccio quando si manifesta lo fa con fenditure dall’aspetto non propri tranquillizzante. Essere qui solo mette una certa tensione ma è una scelta e questo la rende tollerabile. I contrasti che vivo intensamente mentre avanzo mi fanno un po’ barcollare le certezze, a casa non sanno neanche dove sono ma non posso legare la mia sete agli affetti. Per rimettere in equilibrio i pensieri che mi tormentano mi riprometto di riportare a casa la pelle integra per non seminare dolore, come se dipendesse solo da me. Pensarlo mi fa stare meglio.
Sono inebriato dagli elementi naturali che mi circondano trovarmi a così diretto contatto mi provoca una spinta emotiva unica.
Sono a metà ghiacciaio ho letto che in alto dovrei vedere il puntino giallo del rifugio Gonnella, il ghiacciao del Dome alla mia destra confluisce nel Miage . Non avevo mai visto seraccate di queste dimensioni . Qualche blocco di ghiaccio cade fragorosamente dai molti ghiacciai pensili sospinti a valle dalla gravità.
- Il rifugio Gonnella, il primo rifugio è stato costruito nel 1891 per facilitare l'ascesa al monte Bianco dal versante italiano. Si trattava di una semplice capanna in legno che si vede ancora a sinistra nella foto,
Il primo rifugio è stato ampliato nel 1925 ed ora è adibito a locale invernale.
Nel 1962 fu costruito un più ampio rifugio in muratura a fianco del precedente.
Nel 2011 è stato inaugurato il nuovo rifugio dal design avveneristico.
Il rifugio non lo vedo semplicemente perché lo cerco molto più in basso di dove è situato . Quando alzo gli occhi e vedo il puntino giallo appeso sul costone roccioso che argina il ghiacciaio del Dome sono percorso da un brivido di sconforto. Il sole è già da un pezzo che non entra più nella valle.
Oltrepasso di un bel pezzo la confluenza tra il Dome e il Miage e cerco come da descrizione l’uscita dal ghiacciaio posta sulla mia destra nei pressi di un magro pascolo definito “La Chaux de Pesse” un francesismo dialettale che indica i pascoli alti probabilmente le ultime tracce di erba per i camosci.
Anni dopo in quella zona per una ripetizione con amici saremo vittima di una scarica di sassi che solo per fortuna e per la perizia del pilota dell’elicottero del soccorso alpino non si risolse in tragedia.
Abbandonato il ghiacciaio il sentiero sale prima in modo tranquillo ma poi in modo deciso sino a costringere ad alcuni passaggi di facile arrampicata. Mentre faccio una breve pausa vengo raggiunto da uno dei rifugisti sceso a valle a fare provviste, e mi conforta sulla vicinanza del rifugio, se ne va con passo molto spedito. Questo incontro mi da una buona dose di tranquillità e in breve raggiungo il rifugio Gonnella che si manifesta quando ormai si è a pochissimi metri.
Il tempo di ambientarsi e la cena è in tavola, sono solo questa sera al rifugio.
Dopo cena una lunga chiacchierata con il rifugista dissolve gran parte dei miei dubbi. Scopro che alcuni ponti sul ghiacciaio hanno ceduto e quindi non va seguita la traccia più evidente ma una linea poco tracciata che passa più in basso e aggira due grossi crepacci.
Come da previsione il giorno successivo lo passo nei pressi del rifugio e in avanscoperta verso la cresta di Bionnassay per studiare un po’ il percorso di salità, scoprirò solo il giorno successivo di aver gettato l’unica chance di un giornata spettacolare per raggiungere la vetta.
Dopo aver memorizzato e percorso in parte la via di salita attraverso il ghiacciaio torno al rifugio. Giunge al rifugio un gruppetto di spagnoli che saliranno anche loro l’indomani. Un po’ di sole pomeridiano, la cena è servita molto presto e alle 20.00 c’è il coprifuoco in rifugio.
La sveglia è prevista per mezzanotte e mezza, i pensieri mi tengono compagnia chiudo occhio forse un paio d’ore e sento il richiamo del rifugista come una liberazione.
All’una esatta sono fuori dal rifugio con i ramponi calzati , il rifugista mi butta li un in “bocca al lupo”. Gli spagnoli sono molto lenti e io mi avvio sul ghiacciaio con la luce della mia torcia. Il buio è totale e stelle non se ne vedono proprio. Il buio forse è anche un ottimo alleato nell’attraversamento di alcuni ponti e nella risalita di alcuni crepacci perché impedisce di percepire esattamente cosa mi aspetti in caso di errore.
- Cresta di Bionnassay
Quando sono quasi al termine del ripido pendio che porta sulla sulla affilata cresta di Bionnassay la torcia mi abbandona e non senza imprecazioni uso l’ultimo respiro della torcia per ricavare uno spazio per una sosta improvvisata su un pendio a 45° , un cordino passato in vita e legato alla picozza conficcata nella neve mi dà tranquillità . Ho un paio di opzioni a disposizione e nessuna allettante. Attendere gli spagnoli con le loro torce che però sono molto in basso e li vedo come dei puntini lontani o attendere le prime luci dell’alba. In meno di un’ora gli spagnoli arrivano sul ripido pendio e la luce dell’alba è sufficiente per ripartire.
Ma è un alba malata di nuvole e nebbie, mi avvio lungo l’affilata cresta incorniciata di neve verso nord. Una scivolata qui mi porterebbe direttamente in Francia circa 1600 m. più in basso. Il Dome de Gouter dovrebbe essere alla mia sinistra ma non lo vedo.
Ormai sono immerso nella nebbia la traccia è evidente ma poi il vento deve averla cancellata, non riesco a intravedere la via da seguire mi fermo aspetto gli spagnoli che mi hanno seguito sino qui. Realizzo che una decisione debba essere presa in fretta anche perché comincia a manifestarsi il rischio che la nebbia chiuda anche la via di ritorno rendendo i passaggi aerei ancora più insidiosi.
Provo per la prima volta su di me il peso della rinuncia, sulle montagne di casa è tutto più facile puoi tornarci quando vuoi ma questo è il mio Himalaya. Tanto agognato e desiderato con la parte più difficile alle spalle ormai sarebbe solo una lunga e faticosa camminata verso la cima del Monte Bianco.
Sono sereno quando decido di rinunciare, le condizioni sono tali che non mi permettono di continuare in sicurezza. Il mio non è uno scontro o un confronto con la natura non c’è competizione tra di noi siamo alleati sia con il sole che con la nebbia. La mia sete è comunque appagata.
Se fossi stato respinto dalla difficoltà tecnica avrei avuto lo stimolo a migliorarmi per poter andare oltre per superare l’ostacolo. Mentre scendo penso ad una scusa valida per giustificare la mia assenza da casa in questi giorni. Questa volta è andata così ma non mi sono scoraggiato, per calpestare la neve della vetta dovrò tornarci altre due volte.
cl
- Vetta Monte Bianco
- Foto in vetta al Monte Bianco